Filippo Galli ha presentato a Trieste il suo libro e non sono mancati alcuni aneddoti sulla sua carriera, oltre a qualche commento sul Milan di oggi.
Quando Silvio Berlusconi comprò il Milan nel febbraio del 1986, la squadra aveva già dei giocatori di ottimo livello. Tra questi c’era anche Filippo Galli, che con la maglia rossonera ha totalizzato 325 presenze, 4 gol e 17 trofei. Terminata la carriera da calciatore nel 2002, dopo le esperienze con Reggiana, Brescia e Watford, è successivamente tornato in rossonero: dal 2004 al 2006 è stato vice allenatore della Primavera, di cui ha poi ereditato le redini da Franco Baresi. Dall’estate 2008 ha affiancato Mauro Tassotti come vice di Carlo Ancelotti in Prima Squadra, poi dal 2009 al 2018 è stato direttore del settore giovanile.
Dopo l’addio al Milan, ha collaborato prima con la FIGC e poi con il Parma. Quella nel club gialloblu è la sua ultima esperienza lavorativa nel mondo del calcio: annunciato come responsabile dell’area metodologica nel maggio 2021, è stato poi esonerato nell’ottobre 2022. Ha scritto il libro “Il mio calcio eretico. Dai trionfi con il Milan al lavoro con i giovani“ in cui ha raccontato un po’ di aneddoti della sua carriera e ha esposto la sua visione del calcio. Una delle tappe della presentazione è stata a Trieste presso la Libreria Lovat. All’evento è stato affiancato dal noto youtuber milanista Rinaldo Morelli.
Filippo Galli: le dichiarazioni nella presentazione a Trieste
IL FRATELLO INTERISTA – “Ho la fortuna di essere il fratello maggiore, ci sono 6 anni di differenza con lui. Non ho vissuto questa rivalità. A 19 anni sono andato a Pescara e prima ancora avevo una vita comunque impegnata, avevo iniziato a lavorare nell’azienda di nostro padre, quindi con mio fratello non avevamo tanti momenti per discutere o bisticciare per il calcio. È andato tutto abbastanza bene. Lui è davvero interista. Dice che da quando Bergomi ha smesso di giocare, è venuto fuori tutto il suo essere milanista, come lui stesso aveva ammesso. Mio fratello non lo chiama più Bergomi, ma Bergòmi. Gli ha cambiato l’accento, questo per dire quanto sia interista. Comunque andiamo d’amore e d’accordo, nonostante loro abbiano vinto la seconda stella…“.
GALLI MILANISTA – “Sono milanista da quando avevo 6 anni, da un Milan-Celtic in cui un mio cugino e un amico mi portarono a una partita di cui di fatto non ricordo nulla, se non il fatto che mio cugino parcheggiò l’auto fuori da San Siro e poi non si ricordava più dove l’avesse parcheggiata. Il problema è che aveva nevicato e abbiamo dovuto aspettare che quasi tutti lasciassero San Siro per capire dove fosse la nostra auto. Da quella partita di Coppa dei Campioni del 1969 divento milanista. Mio padre è sempre stato del Torino, non mi ha mai influenzato dal punto di vista calcistico. I miei cugini sono milanisti e anche la sorella di mio padre. La strada era tracciata. Prima di iniziare a giocare a calcio ho fatto tre anni di ginnastica artistica. Sono arrivato al Milan molto tardi rispetti ad altri compagni, sono entrato nel settore giovanile a 17 anni. Ho anche giocato in Prima Categoria. Non ho mai giocato a calcio con l’idea di voler arrivare in Serie A e al Milan, l’ho sempre fatto perché mi piaceva e volevo dare il meglio di me. Poi ho avuto la fortuna di arrivare al Milan e di fare un certo tipo di carriera che mi ha dato grandi soddisfazioni. Mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto“.
INCONTRI SPECIALI – “Quando ero al Watford ho conosciuto Elton John, è stato un momento particolare. Nella mia carriera ho avuto la possibilità di incontrare personalità incredibili. Anche Papa Giovanni Paolo II. Ma quello che mi ha dato più emozioni è stato Nelson Mandela, quando siamo andati a fare un’amichevole a Johannesburg in Sudafrica. Entrare nel suo studio è stato davvero emozionante“.
ARRIGO SACCHI – “Un innovatore. In Italia possiamo dire che c’è stato un calcio prima e dopo Sacchi, non solo al Milan. Ha cambiato un po’ il modo di affrontare le squadre, anche in trasferta. Si parla tanto di calcio offensivo, però studiandolo bene quello di Arrigo era un calcio basato tantissimo sull’organizzazione difensiva, sul saper stare in campo, comportarsi da squadra, essere corti e indirizzare gli avversari sugli esterni quando avevano la palla. Su questi principi è stata costruita una squadra straordinaria per esito e anche per processo di lavoro. Sono state introdotte delle metodologie nuove. Lavoravamo tanto senza palla, facendo delle grandi corse per prepararsi da un punto di vista fisico-atletico. Si lavora anche dal punto di vista situazionale, dunque sulle varie situazioni di gioco che provavamo in allenamento per poi saperle affrontare in partita. Sacchi fu davvero innovativo.
MILAN DI SACCHI VS BARCELLONA DI GUARDIOLA – “Il Barcellona di Guardiola riusciva a difendere di più mantenendo il possesso della palla, noi invece lavoravamo di più sull’idea di chiudere gli spazi, di accorciare gli spazi in cui i rivali avevano la palla, da recuperare facendo pressione e ripartendo con un contropiede che spesso partiva dalla trequarti avversaria e non dalla nostra. I metri da correre erano meno e si poteva essere più efficaci”.
AVERE UN ALLENATORE COME SACCHI – “Da sottolineare il supporto che ha avuto da parte del club. Inizialmente avevamo avuto delle difficoltà, eravamo anche usciti dall’allora Coppa UEFA contro l’Espanyol. I tifosi facevano il nome di Capello, che era colui che ci aveva portato alla qualificazione in Coppa UEFA subentrando nella stagione precedente. Berlusconi, Galliani e Braida sono stati bravi a mantenere forte la posizione di Sacchi. Noi ci eravamo sempre allenati con attenzione e concentrazione. Quella squadra è durata tanto nel tempo anche perché aveva una grande cultura del lavoro. Lui era innovativo anche perché voleva che andassimo a vincere ovunque, cosa che in Italia era vista come una cosa strana, perché di solito in trasferta si difendeva a oltranza per poi provare a vincere un contropiede. Arrigo ha cambiato tale concetto, la società gli è stata vicino. Poi, come spesso accade, quando sai che stai lavorando bene è come se esplodesse qualcosa. Abbiamo vinto in casa del Verona 1-0 e da lì è partita la rincorsa verso il Napoli, che era primo, e culminata in quella storica vittoria al San Paolo. È stato un crescendo, vincere ha aiutato a vincere“.
GALLI SI RIVEDE IN GABBIA – “Credo di sì. Matteo l’ho avuto nel settore giovanile, con lui abbiamo avuto anche delle discussioni, perché inizialmente era un centrocampista. Siccome nel settore giovanile abbiamo iniziato con la costruzione dal basso nel 2012, dato che la consideravamo uno strumento di formazione per i ragazzi, avevamo bisogno di difensori centrali che sapessero sia difendere che costruire con la palla nei piedi. Gabbia, essendo stato un centrocampista, aveva questa possibilità in più. Secondo noi non copriva campo a sufficienza da mediano. Come me, era uno molto focalizzato. Magari non due super talenti, però abbiamo in comune la capacità di essere concentrati sul compito, sull’impegno, sull’attenzione. Quando non hai grande velocità, devi essere più attento e leggere le situazioni di gioco prima per poter anticipare l’avversario. Mi rivedo in Gabbia“.
FARSI TROVARE PRONTI – “Ad un certo punto mi sono trovato ad essere una riserva, però mi sono sempre allenato pensando di giocare, anche se sapevo che avrebbe giocato Costacurta. Mi allenavo per cercare di mettere in difficoltà l’allenatore e perché credo che anche i talenti più bravi che giocavano con me avessero bisogno anche di me. Il talento non basta mai a sé stesso, ha bisogno anche di altro. Volevo essere al meglio per aiutare la squadra“.
DUALISMO CON COSTACURTA – “Billy è stato molto bravo a cogliere l’opportunità quando io mi sono infortunato. Non lo possiamo sapere, ma magari anche senza infortunio lui avrebbe preso il mio posto per le qualità che aveva, per velocità, per tecnica e per tutta una serie di cose. Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto e lo abbiamo anche oggi, c’è stima reciproca. L’uno è servito a stimolare l’altro, penso che sia una cosa importante dentro il gruppo“.
TECNOLOGIA NEL CALCIO – “Lo sviluppo tecnologico non si può fermare e come esso possa aiutare l’uomo. Il problema siamo sempre noi e come utilizziamo i diversi strumenti. Nel settore giovanile abbiamo utilizzato gli aspetti tecnologico, si monitorava dal punto di vista atletico la squadra durante le partite con l’utilizzo del GPS. Inoltre, c’erano dei dati tecnico-tattici che ci davano l’idea di come stavamo giocando. Il dato è importante, però devi sempre vedere il giocatore. Busquets al Barcellona spesso faceva passaggi di 5-6-7-8 metri e quasi tutti orizzontali. Uno magari guarda i dati e può pensare che Busquets non possa essere un giocatore interessante. Invece, se pensiamo che il calciatore che riceve palla da lui è poi nella condizione di fare un passaggio filtrante che supera due linee di passaggio, ecco che il passaggio di Busquets assume un’importanza rilevante. Non c’è solo un aspetto quantitativo, ma soprattutto qualitativo“.
RETROSCENA SU MILAN LAB – “Come Fonseca, noi come settore giovanile avevamo l’idea che un calcio dominante e propositivo fosse un calcio più formativo, perché più si ha la palla, più si fanno scelte, più si ha coraggio e si controlla il proprio destino. Le nostre squadre dovevano avere il pallone e quando lo avevano correvano meno, il più delle volte era positivo adottando il nostro stile di gioco. Vincevamo quando correvamo meno. Milan Lab pensava che più sei bravo e più devi correre per vincere. A un certo punto siamo andati in contrasto in termini di idee. Un giorno arriva uno di quei report tecnico-tattici delle nostre partite e vediamo una linea nera. Il responsabile di Milan Lab aveva fatto mettere all’arbitro il GPS, senza dire nulla a noi. Andò ai piani alti a dire che c’era qualcuno dei giocatori che correva meno dell’arbitro. Io sono stato chiamato e la mia risposta è stata ‘Quindi?’. Non aveva senso. Anche oggi si pensa che la partita di calcio sia soprattutto una performance atletica. È anche questo, ma è soprattutto altro“.
SACCHI E IL MILAN TETRAGONO – “Dopo un’amichevole con il Verbania a cui non era presente per ragioni di salute, mi telefonò per chiedermi come avessimo giocato. Gli dissi abbastanza bene, non era stata granché come partita, però eravamo stati su livelli chi ci stavano. Lui, però, aveva già parlato con il team manager Ramaccioni che gli aveva raccontato com’era andata. Mi rispose che eravamo stati poco tetragoni, poco aggressivi e dei pressapochisti. Ho pensato: ‘Che cazzo mi sta dicendo?’. Arrigo era così, la sua forza è stata anche il suo limite. Era veramente ossessivo, viveva per il calcio e per migliorare ogni particolare che può fare la differenza. Anche da Berlusconi è arrivato l’insegnamento sulla cura dei dettagli”.
CAMBIAMENTO NEL SETTORE GIOVANILE DEL MILAN NEL 2012 – “Dopo le cessioni di Ibra e Thiago Silva, il Milan disse di non poter più acquisire giocatori di prima fascia. La ricaduta sul settore giovanile è stata quella di non poter più acquisire giocatori dall’Under 15 in avanti, una volta formata la squadra Under 15 bisognava portare i ragazzi fino alla Primavera e magari qualcuno anche in Prima Squadra. Chiesi a Galliani di andare a vedere come lavoravano i nostri competitors e che avevano nelle loro rose tante giocatori del vivaio. Abbiamo iniziato ad andare visitare queste squadre, a vedere come lavorassero. Sono saltate all’occhio due cose: la continuità e la coerenza dei principi condivisi nei loro settori giovanili. Abbiamo iniziato a cambiare approccio metodologico”.
APPROCCIO METOLOGICO CON I GIOVANI – “Ero stato allenatore della Primavera e una dottoressa di psicologica dell’Università Cattolica di Milano aveva contatto il settore giovanile del Milan e noi avevamo partecipato a un corso per allenatori in cui degli psicologi ci spiegavano gli strumenti per capire il modo con cui ci dovevamo relazionare con i nostri giocatori. Memore di questo corso, quando divento responsabile del settore giovanile decido di mettere grande attenzione sulla parte cognitiva ed emotiva dei ragazzi, istituendo una sorta di area psico-pedagogica che sostenesse ciascuno dei nostri giovani nel percorso di crescita, non solo calcistico ma di tutta la persona. Non possiamo pensare di avere un pensiero riduzionista, ovvero che divide tutto: la parte atletica fatta in un modo, la parte tecnica in un altro, quella tattica in un altro ancora e poi quella mentale magari fatta con dei giochini. Tutto può essere raccolto all’interno del gioco: ci sono gli aspetti emotivi, tecnici, atletici e relazionali. Volevamo portare una visione sistemica, dove ciascuna parte condiziona l’altra, non si può pensare di separarle“.
RAFAEL LEAO – “Ha bisogno di comprendere delle cose. Non è che Fonseca lo abbia lasciato fuori perché volesse lasciarlo fuori e fargli la guerra. Non è così, ci sono tante altre cose. Qui mi fermo. Comunque Leao ha bisogno dell’altro. È un caso straordinario, è davvero un giocatore di talento. A volte pensa di bastare a sé stesso, invece non è così“.
RETROSCENA SU UN GIOVANE DEL VIVAIO DEL MILAN – “Un ragazzino di 12 anni veniva chiamato Maestro da un allenatore del nostro settore giovanile. Quando le partite andavano male, questo allenatore si alzava e diceva ‘Maestro, inventa’. Il ragazzo inventava, aveva tante qualità, dribblava tutti e vinceva le partite da solo. Ma sapevamo che avrebbe potuto avere delle difficoltà nel momento della crescita e che, conoscendolo, lo avrebbero raddoppiato o triplicato. Noi adulti dovevamo fargli capire l’importanza della collaborazione e del compagno che può aiutare a risolvere le situazioni, altrimenti avrebbe avuto tanti problemi. L’allenatore, che aveva agganci alle alte sfere, non ci ascoltava. Ma il responsabile non è stato lui, il responsabile sono stato io che non sono intervenuto come avrei dovuto. A 14 anni il ragazzino è venuto con le lacrime agli occhi assieme al padre e ha lasciato il calcio, me ne assumo la responsabilità. Non si riconosceva più nel Maestro che risolveva le partite e si è perso, non era più il protagonista. La colpa è di noi adulti, è stata mia“.
IMPORTANTE STUDIARE – “A volte noi ex calciatori pensiamo di saperla sempre più lunga degli altri. Crediamo che il fatto di aver giocato sia il miglior viatico per fare l’allenatore, dirigente o il commentatore. Come dico nel libro, è importante mettersi a studiare, mettersi in gioco e anche in discussione“.
CAMARDA TITOLARE A CAGLIARI. QUANDO UN GIOVANE È PRONTO? – “Non dico che siano delle sensazioni, però quando segui un ragazzo hai la percezione di quando possa essere messo nella mischia. Quando magari vedi che si sta allenando bene, mostrando una continuità nei miglioramenti, sapendo stare all’interno di un gruppo e di essere competitivo all’interno del gruppo allora puoi pensare che può performare in un contesto di Prima Squadra”.
FINALE DI CHAMPIONS 1994 DA TITOLARE, BARESI E COSTACURTA SQUALIFICATI – “Nella semifinale contro il Monaco ero in panchina come un gufo. Un’ammonizione e un’espulsione così mirate… Forse mi è stato restituito qualcosa, dato che pensavo di poter giocare titolare nella finale contro il Benfica del 1990. Mi sentivo bene e a un certo punto pensavo di aver convinto Sacchi, che poi giustamente ha fatto giocare Costacurta. Dopo ho compreso perché avesse dato ancora fiducia a Billy, che aveva dato continuità. Era giusto così. Poi ad Atene è stata una consacrazione per me. Se avessi sbagliato tale partita o se non avessimo vinto, forse si sarebbero dimenticati delle altre mie 324 presenze che ho fatto nel Milan“.
NEI SETTORI GIOVANILI ITALIANI POCA VOGLIA DI INNOVARE, CON I VERTICI FEDERALI ATTUALI DIFFICILE INNOVARE IL NOSTRO CALCIO – “Si fa fatica a trasmettere ciò che andrebbe fatto a livello metodologico per mettere i giovani nelle condizioni di apprendere come giocare a calcio. Questo avviene perché si preferisce rimanere nella propria zona di comfort, si dice che si fa così perché si è sempre fatto così… Per l’allenatore allenare la tecnica in un contesto situazionale è molto più difficile, perché devi saper cogliere il particolare nel collettivo. Questo richiede competenza, conoscenza del gioco, non tutti sono in grado di farlo. L’allenatore preferisce mettere il calciatore davanti al muro oppure uno di fronte all’altro a fare passaggi, perché lì può controllare quanti ne sono stati sbagliati. È tutto contato, si può calcolare ed è sotto controllo. Anche nei settori giovanili ci sono genitori che vengono a vedere le partite e dicono che un allenatore è bravo perché i ragazzi fanno tutto perfettamente. Ma il calcio è caos, complessità. Il calcio è uno sport di situazioni, il totale non è dato dalla somma dei singoli giocatori ma di come questi sanno interagire all’interno di un campo di gioco. A volte non sanno farlo nel modo giusto per arrivare a vincere. Devi allenarti a ciò che ritroverai in partita e che sarà ogni volta diverso“.