L’ex attaccante dei rossoneri si è raccontato al Corriere della Sera e ha parlato anche del doloroso addio al calcio
Nessun tifoso del Milan ha mai dimenticato Filippo Inzaghi, vera e propria bandiera dei rossoneri nei primi anni del nuovo millennio. L’ex attaccante ha giocato dal 2001 al 2012 con la maglia dei rossoneri vincendo praticamente tutto.
Ben 300 partite col Diavolo e 126 gol segnati, con in bacheca 2 Scudetti, 2 Champions League, 2 Supercoppe europee e tanto altre. Inzaghi è tornato ora in Serie A salendo sulla panchina della Salernitana e si è raccontato in un’intervista al Corriere della Sera, nella quale ha parlato anche del suo passato rossonero. Tra i racconti su Galliani e Berlusconi, è poi venuto fuori anche il discorso sul momento del ritiro dal calcio giocato.
“Io ho smesso a 39 anni, oggi un’età ancora molto giovane, ma per noi non è così. – spiega Superpippo – Ricordo quando rimasi in Belgio un mese perché mi ero fatto male ad una gamba. Ancelotti mi disse ‘Tornerai grande’. Chissà, pensavo io: non si è mai sicuri di niente quando si gioca a quei livelli. Ricordo benissimo i miei ultimi 4 minuti in campo. Era il 13 maggio 2012, ore 16.45. In realtà, quelli dovevano essere i miei ultimi minuti con il Milan, poi si sono trasformati nei definitivi ultimi”.
Inzaghi racconta l’addio al calcio e l’approdo in panchina
L’ex centravanti ha spiegato bene come sono andate le cose e come ha vissuto male l’addio al calcio. Concludere una parte così bella della sua vita è stato difficile, come spiega lui stesso.
“Pensavo al ritiro da tempo, come ogni uomo coscienzioso. La verità amara è che la tristezza non la puoi controllare e così, dopo, sono stato malissimo. Per fortuna c’era la mia famiglia. Era una nera paura del futuro, dei giorni che dovevano arrivare. A differenza degli altri lavoratori, un calciatore entro i quaranta deve chiudere tutto e reinventarsi“
Inzaghi ha quindi poi spiegato come ha deciso di diventare allenatore e la sua passione per il calcio, che ha continuato a tenerlo vicino ai campi di gioco: “Io da calciatore ho sempre odiato la panchina, ma poi ne ho fatto un lavoro, come allenatore, perché io lontano dal campo non ci so stare. Non è debolezza, è umanità. Così si spiega anche perché dal Milan sono passato al Venezia, in Lega Pro. Mi dicevano che ero pazzo perché avrei potuto aspettare. Ma come avrei fatto per mesi interi senza campo“.