La lunga lettera di Mattia Caldara a ‘Cronache di Spogliatoio’. Il difensore si è raccontato a 360° gradi, parlando soprattutto dei momenti più difficili
Mattia Caldara, difensore del Milan in prestito al Venezia, si è raccontato in una lunghissima e bella lettera per ‘Cronache di Spogliatoio’. L’ex Atalanta si è soffermato soprattutto sui momenti più difficili della sua carriera, dati in primis dai lunghi infortuni.
Importanti i passaggi riguardanti la sua esperienza al Milan, sia da neo rossonero che quando ha salutato per due volte Milanello. Queste le dichiarazioni principali della lettera di Caldara:
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I trasferimenti passaggio alla Juve e al Milan: “Quando sono andato alla Juventus, e poi al Milan, ho capito che quel concetto di famiglia è più incentrato e traslato sul singolo. Lì ogni passo viene analizzato, fa notizia. Venivo da un gruppo in cui ogni tuo compagno era tuo fratello, i big invece pensano più a loro stessi”.
Sul giorno di presentazione al Milan: “Io invece ero agitato il giorno in cui mi hanno presentato al Milan. Era anche il giorno di Gonzalo Higuaín. Non sapevo dove mi stessero portando, il team manager mi diede una maglietta e io chiesi: «Cosa devo fare? Autografarla?». Mi rispose: «Aspetta e vedrai». Salimmo su un palazzo in Piazza Duomo, mi affacciai e vidi una schiera di persone sotto ad applaudirci, cantare cori. Folle. Lui era pronto, io no. Mi sono goduto il momento, ma se me lo avessero detto prima probabilmente non sarei salito lassù. Non faceva per me”.
Sul primo infortunio al Milan: «Durante l’allenamento, durante uno scatto sento un dolore lancinante al tallone. Penso: «Chi diavolo mi ha colpito?». Mi volto, ma c’è solo Patrick Cutrone a due metri di distanza. «Come ha fatto a prendermi!?», non capisco. E invece realizzo che no, non è stato nessuno. Il mio tendine d’Achille aveva ceduto. Non avevo sensazioni pregresse, fastidi, dolore. Quella è stata la prima, vera botta mentale. Ho compreso che non sarebbe stata una cosa da poco. Non sapevano se operarmi, erano giorni confusi e io ero in balia di tanti punti interrogativi. Il tendine era ancora attaccato al 10%, volai in Finlandia dal professor Orava che mi consigliò di non operarmi. Così sono stato 50 giorni con il gesso: fermo, immobile, senza poter fare niente. Privato per la prima volta di giocare a calcio. E per noi calciatori, il calcio è vita. Un primo blackout. Mi misi l’anima in pace: non c’era niente da fare».
Sul secondo infortunio in rossonero: “Dopo 5 mesi inizio a stare meglio. Era ormai aprile. In allenamento sento che ancora non è finito tutto, ma miglioro. Finalmente torno in campo: c’è la Coppa Italia contro la Lazio. Durante la partita sembrava che nei mesi precedenti non fosse accaduto niente. Mi sentivo bene, eccome. Tutto il dolore si era sciolto all’improvviso: ‘Cavolo, sto così bene…’. In settimana mi alleno al massimo, fiducioso. Ero appena tornato dopo 150 giorni senza calcio. Faccio un contrasto e niente, il legamento crociato collaterale decide di cedere. Buio. Mentalmente era come se fossi stato colpito da un meteorite. Da una spada che mi aveva appena trafitto. Lo sentivo: c’ero quasi. E invece eccolo, di nuovo, il baratro. Una botta ancora più dura della prima. Maligna, ipocrita. Era maggio, avevo già perso una stagione, quella del grande salto. Mi servirono alcuni giorni per realizzare. Proprio in quel momento iniziò anche il declino personale. Andai a Roma per fare riabilitazione, tornando a Milano a settembre inoltrato. Mister Giampaolo, di fatto, non l’ho neanche conosciuto, perché quando iniziai a essere più presente a Milanello, lui fu esonerato. Arrivò Pioli. Erano passati già tre mesi, ne servivano ancora due. Feci due amichevoli con la Primavera, ma lo sentivo: il ginocchio non stava bene. Sicuramente non era al 100%. Serviva tempo. Ancora”.
Sul pensare di dire addio al calcio: “Sì, una volta sì. Una mezza volta. Quando non riesci a venire a capo di una situazione da tanto tempo, la soluzione più estrema ti sembra la migliore. Ma non potevo mollare. Cazzo se non potevo. Io volevo essere felice, quella roba lì non mi bastava. Avevo lottato una vita per essere lì, non potevo appallottolare e gettare tutto nel cestino come un pezzo di carta pieno di parole a caso. Ero io a dovermi togliere la nebbia dalla testa. Mi sentivo limitato. Dovevo uscirne. Era un obbligo nei miei confronti e quelli della mia famiglia. Quel maledetto circolo vizioso doveva pur finire, prima o poi. Respiro, prendo fiato. Intanto avevo perso un altro anno di carriera e i rapporti intorno a me si stavano frantumando”.